Articoli di filosofia scritti dalla prof. Luciana Paracchini
PATHOS (PASSIONE)
Compiamo una piccola indagine intorno ad un termine significativo del lessico filosofico – il greco pathos e i suoi derivati – per cercare di capire come si sia passati da una connotazione prevalentemente negativa nel pensiero antico ad una connotazione prevalentemente positiva nella modernità.
Nel pensiero logico di Aristotele il pathos, o più esattamente il corrispondente verbo paschein (πάσχειν - patire) indica la categoria opposta e complementare al prattein, (πράττειν - l’agire); per chiarire meglio, il rapporto tra le due categorie è simile a quello che in grammatica vi è tra verbo attivo e il verbo passivo. Il “patire” indica l’essere oggetto di un’azione altrui, non il soggetto che agisce. Fin qui, nell’ambito della logica, non scorgiamo una connotazione negativa.
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Il legislatore, politico e scrittore Solone di Atene (638 – 558 a.C.) ci lascia questa breve considerazione (autobiografica) sulla vecchiaia:
γηράσκω δ’αἰεὶ πολλὰ διδασκόμενος[1]
[gherásko d’aiéi pollà didaskómenos]
cioè: “invecchio sempre molte cose imparando”.
Mi piace confrontare questa massima con quella che si legge in una commedia di Terenzio: “Senectus ipsa est morbus”.
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L’etica degli antichi (quarta e ultima parte)
ELLENISMO
Come ricorda Mario Vegetti nell’opera già citata, un’illustre tradizione storiografica sostiene che la perdita dell’indipendenza politica delle poleis, avvenuta nel IV secolo ad opera della monarchia macedone di Filippo e di Alessandro, avrebbe determinato un radicale mutamento della vita sociale e culturale dei Greci, cambiando anche le coordinate della riflessione etica. Questa veduta è in parte fuorviante: anche dopo la conquista macedone e perfino in epoca romana la polis ha continuato ad essere il nucleo principale della vita sociale; è però vero che è venuta meno l’autonomia dei processi di deliberazione politica, e che questa perdita sollevava nuovi interrogativi.
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L’etica degli antichi (parte terza)
SOCRATE
È nel pensiero di Socrate che va situata la svolta decisiva attraverso la quale il tema dell’anima esce dal contesto religioso, proprio di orfismo e pitagorismo, per diventare, attraverso un processo di individualizzazione e moralizzazione, il fulcro del discorso morale.
Il tema dell’anima è portato da Socrate all’interno della città; possiamo vedere in questo spostamento una laicizzazione, che lo sottrae al contesto iniziatico delle sette religiose, e il tentativo di una mediazione difficile tra due linee di pensiero, quella della virtù politica del buon cittadino che si riconosce nelle leggi e quella della salvezza dell’anima che ha per fine una dimensione ultraterrena.
Non esiste secondo Socrate la pluralità delle virtù, presente sia nella tradizione omerica sia nella cultura della città. L’areté può ancora essere concepita come un’eccellenza, tuttavia essa è condensata e unificata in una sola figura: la scienza (epistéme). Si tratta di una capacità razionale di conoscere il bene e il male e quindi di orientare il comportamento, scegliere il meglio e evitare il peggio
“Nessuno commette volontariamente colpe, né compie volontariamente azioni vergognose e malvage” (in Platone, Protagora). Tutti desideriamo la felicità; scegliere per il male e l’ingiustizia significherà allora scegliere l’infelicità, compiere un errore intellettuale.
La cura socratica dell’anima può solo significare che dentro di noi c’è un giudice che valuta la nostra condotta con severità e giustizia, al quale non si può sfuggire. Esso condanna all’inquietudine e all’infelicità anche chi è premiato dall’esteriorità del corpo e della città, o viceversa premia con una incrollabile, serena felicità anche chi appare duramente colpito in quel livello esteriore.
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L’etica degli antichi (parte seconda)
di Luciana Paracchini
SOLONE
La via “politica” è rappresentata innanzitutto dal legislatore Solone (circa 640 – circa 560 a.C.):
“Scrissi allo stesso modo leggi per il nobile e il plebeo (agathos – kakos), adattando a ciascuno retta giustizia”
“Diedi al popolo tanto prestigio quanto era giusto, senza sottrarre o aggiungere nulla alla sua dignità: chi aveva forza o era ammirato per la ricchezza, feci in modo che anch’egli non subisse alcun danno. Con forte scudo mi eressi a difesa degli uni e degli altri, né feci prevalere alcuno ingiustamente”
La legge della città non cancella le differenze sociali ma traccia uno spazio neutro in cui l’agathos e il kakos possono confrontarsi; gli onori dovuti alla virtù non appartengono per nascita all’eroe, ma vengono riconosciuti equamente in base alla legge. A partire da Solone diventa centrale la dimensione politica della virtù; l’eunomia, cioè il buon ordine e la prosperità della città, richiede non tanto l’areté guerresca di Omero, ma la saggezza politica.
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