Quaere

A partire dalla metà del Settecento, nella riflessione sull’arte e sulla bellezza si verifica un allontanamento progressivo dagli ideali classicisti della misura, della forma compiuta e armonica, e dalla tendenza a imporre regole rigide e minuziose alla produzione artistica. Vi contribuisce anche l’emergere di una nuova sensibilità che si manifesta soprattutto nella lirica inglese, con il predominio di atmosfere notturne e misteriose, il fascino delle rovine e dei cimiteri, la meditazione sulla morte, i paesaggi lugubri o selvaggi. Un’interpretazione incisiva di questa nuova sensibilità si trova nella Inchiesta sul bello e il sublime (1757) dell’irlandese Edmund Burke (1729-1797). Nella sua analisi dell’esperienza estetica, influenzata dalla prospettiva empiristica di John Locke, l’attenzione si sposta dall’oggetto (naturale o artistico) alle emozioni e alle sensazioni provocate nel soggetto.

Se il sublime dell’Anonimo indicava l’eccellenza letteraria come frutto di una “grande anima” le cui doti naturali fossero state educate e forgiate dallo studio, qui vediamo uno spostamento di significato del termine: il sublime è un violento sentimento dell’animo, che si manifesta potenzialmente in ogni essere umano in presenza di determinate condizioni.

Al piacere del bello, connesso a sentimenti sereni di armonia, proporzione e chiarezza, Burke contrappone l’intensità sconvolgente dell’esperienza del sublime, connessa alle impressioni del dolore, del terrore, dell’oscurità e dell’infinito. Fonte del sublime non è soltanto l’arte, ma anche e soprattutto la natura, in particolare quando la sua immensità travolge ogni forma e misura definita, quando le sue forze scatenate minacciano il nostro istinto di conservazione. Questa esaltazione della natura - una natura ben lontana dall’ordinato cosmo newtoniano - è affine a quella che caratterizzerà in seguito gran parte del romanticismo. Per Burke sono fonti del sublime l’oceano, il cielo stellato, l’oscurità e la notte, le idee dell’eternità e dell’infinito, la solitudine e il silenzio.

Mentre il bello, con la sua armonia rassicurante, suscita un piacere diretto e positivo, il sublime suscita un “orrido diletto”, indiretto e ambivalente.

Da Inchiesta sul bello e il sublime di Burke

“Le passioni che riguardano l’autopreservazione si riferiscono per lo più al dolore o al pericolo. Le idee di dolore, malattia, morte riempiono la mente di forti emozioni di orrore...

Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in certo senso terribile... è una fonte del sublime: ossia è ciò che produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire... Le idee di dolore sono molto più forti di quelle che riguardano il piacere... La morte è in generale un’idea molto più impressionante del dolore... Quando il pericolo o il dolore incalzano troppo da vicino, non sono in grado di offrire alcun diletto e sono soltanto terribili; ma considerati a una certa distanza, e con alcune modificazioni, possono essere e sono dilettevoli...

La passione causata da ciò che è grande e sublime in natura, quando le cause operano con il loro maggiore potere, è lo stupore: e lo stupore è quello stato d’animo in cui ogni moto è sospeso e regna un certo grado di orrore…

Per rendere un oggetto molto terribile, sembra in generale necessaria l’oscurità. Quando conosciamo l’intera estensione di un pericolo, quando possiamo a essa abituare il nostro sguardo, gran parte del timore svanisce. Comprenderà ciò chi consideri quanto la notte aumenti il nostro terrore in tutti i casi di pericolo, e come le nozioni di fantasmi e folletti, sui quali nessuno può formulare idee chiare, impressionino gli animi che credono alle favole popolari circa tali specie di esseri…

È la nostra ignoranza delle cose che genera la nostra ammirazione e principalmente suscita le nostre passioni… Le idee dell’eternità e dell’infinito sono tra le più commoventi che noi possediamo; e forse non v’è nulla da noi così poco compreso come l’infinito e l’eternità... Tutte le privazioni generali sono grandi perché sono tutte terribili: il vuoto, l’oscurità, la solitudine e il silenzio... La grandezza di dimensione è una forte causa del sublime... Sono propenso…a ritenere che l’altezza sia meno grandiosa della profondità e che noi siamo maggiormente impressionati nel guardare giù da un precipizio che nel guardare verso l’alto un oggetto di uguale altezza...

Il cielo nuvoloso è più grandioso di quello azzurro, e la notte più sublime e più solenne del giorno... La bellezza non deve essere oscura, la grandiosità deve essere tetra e tenebrosa; la bellezza deve essere leggera e delicata, la grandiosità solida e perfino massiccia.”

Immanuel Kant (1724 – 1804) dedica la Critica del Giudizio (1790) all’esame di quel tipo di esperienze che noi, con una terminologia fissata nel Settecento, chiamiamo “estetiche”.

Nella prima Critica Kant ha teorizzato le caratteristiche dei giudizi conoscitivi: connettere dati della sensibilità secondo categorie. Ad esempio il botanico collocherà una determinata pianta in uno schema di classificazione, la porrà in una rete di relazioni con l’ambiente, il clima, ecc. I giudizi conoscitivi sono determinanti, nel senso che determinano l’oggetto mediante categorie.

Ma esistono anche giudizi non determinanti: se io dico “quest’albero è bello” non aggiungo nulla alla conoscenza, semplicemente metto in evidenza un accordo tra l’oggetto (di cui posso non sapere nulla) e il soggetto (io stesso con il mio bisogno di trovare finalità e armonia). Questi giudizi estetici sono chiamati da Kant “riflettenti”.

Quali sono le caratteristiche del giudizio estetico?

  • Anzitutto concerne un “piacere senza interesse”, che non si cura del possesso o del valore dell’oggetto, ma solo della sua rappresentazione, della sua immagine.
  • Nel giudizio estetico, bello è ciò che “piace universalmente”, cioè è accompagnato dall’esigenza che il sentimento di piacere sia condiviso da tutti, pur non avendo carattere conoscitivo.
  • Noi riconosciamo la bellezza a quegli oggetti che presentano una “finalità senza scopo”, cioè presentano un’armonia delle parti che sembra diretta ad uno scopo, che però non è determinabile. In altri termini, l’oggetto che definiamo bello presenta un’armonia puramente formale.
  • Il bello è riconosciuto come oggetto di un piacere necessario: un altro modo per sottolineare l’universalità del giudizio estetico.

In sintesi, i caratteri del giudizio estetico sono per Kant il disinteresse e l’universalità.

Quando esprimiamo il giudizio di “bello” non ci riferiamo ai dati dei singoli sensi (il colore viola che può piacere a noi e non ad altri, uno squillo di tromba che può essere percepito come allegro o fastidioso da individui diversi), ma alla forma, al disegno generale dell’oggetto, all’armonia delle parti. Nel giudicare un quadro non ci basiamo sul fatto che la tavolozza usata dal pittore comprenda il viola, come nel giudicare una sinfonia non ci basiamo sulla presenza della tromba nella partitura.

Il giudizio estetico presenta, oltre alla sottoclasse del bello, quella del sublime.

Kant vede nel sublime un secondo tipo di giudizio estetico, nel quale il soggetto si trova di fronte non un oggetto definito nella forma (questo albero, questo dipinto) e quindi percepito dalla sensibilità come chiuso e armonico, ma un oggetto che per le sue caratteristiche rinvia all’idea dell’infinito, di una grandezza che spaventa e attrae allo stesso tempo.

Facciamo qualche esempio: nel sublime matematico (o sublime di grandezza) ci poniamo a confronto con il cielo stellato, le galassie, le distanze astronomiche, e proviamo un sentimento non sereno ma ambivalente: oscilliamo tra un senso di sgomento per la nostra piccolezza e una successiva conferma della capacità della nostra ragione, che riesce a pensare l’infinito e, almeno dal punto di vista morale, non è condizionata dalla natura. Analogamente per il sublime dinamico (o sublime di potenza): l’oceano sconvolto dalla tempesta, i vulcani in eruzione suscitano in noi l’angosciosa consapevolezza della nostra debolezza, seguita dal sentimento della nostra dignità di esseri pensanti, capaci di concepire le leggi dell’universo e portatori della legge morale.

Possiamo aggiungere che il giudizio (e ideale) del bello è tipico di un’estetica classica (o neoclassica), mentre il giudizio (e ideale) del sublime sarà teorizzato soprattutto nell’ambito del preromanticismo e del romanticismo. Inoltre, se il giudizio di bello viene formulato sia per aspetti della natura sia per opere d’arte, il giudizio di sublime è riferito quasi esclusivamente alla natura.

Dalla Critica del Giudizio di Kant

“Il bello naturale riguarda la forma dell’oggetto, che è limitazione; il sublime al contrario si può trovare anche in un oggetto informe, in quanto implichi o provochi la rappresentazione dell’illimitatezza, pensata tuttavia nella sua totalità…Anche tra i due tipi di soddisfazione c’è molta differenza; mentre il bello implica direttamente un sentimento di intensificazione della vita… il sentimento del sublime è invece un piacere che scaturisce in modo indiretto, venendo prodotto dal senso d’un momentaneo impedimento delle forze vitali, seguito da una tanto più forte effusione di queste; e perciò, come emozione, non sembra essere qualcosa di giocoso, ma di serio, tra le occupazioni dell’immaginazione… dato che l’animo non è solamente attratto dall’oggetto, ma alternativamente attratto e respinto, la soddisfazione del sublime non è tanto un piacere positivo, ma merita piuttosto, accompagnata com’è da ammirazione o rispetto, d’essere detta piacere negativo.

Ma la più importante ed intima differenza tra il sublime e il bello è la seguente: se, com’è giusto, prendiamo qui in considerazione prima di tutto soltanto il sublime degli oggetti naturali… la bellezza naturale… comprende nella sua forma una finalità… ponendosi così come autonomo oggetto di soddisfazione; mentre ciò che, nella semplice apprensione e senza che ci mettiamo a ragionare, produce in noi il sentimento del sublime, può apparire, quanto alla forma, urtante per il nostro Giudizio, inadeguato alla nostra facoltà di presentazione e per così dire violento contro l’immaginazione, ma proprio per questo sarà giudicato più sublime.

 [La natura] suscita più facilmente le idee del sublime quando in lei domina il caos, il disordine e la devastazione più selvaggi, purché si manifestino grandezza e potenza. .

Sublime matematico                                              

Diciamo sublime ciò che è assolutamente grande.

Si può anche esprimere la definizione: sublime è ciò al cui confronto ogni altra cosa è piccola. Qui è facile vedere che in natura non vi può essere nulla che, per quanto grande noi lo giudichiamo, non possa venir ridotto, considerandolo sotto un altro rapporto, all’infinitamente piccolo… nulla di ciò che può essere oggetto dei sensi merita di essere detto sublime… Ciò che è assolutamente grande non è l’oggetto dei sensi, ma l’uso che il Giudizio fa di certi oggetti a vantaggio di tale sentimento… Ne consegue che merita il nome di sublime non l’oggetto, ma la disposizione d’animo che risulta da una certa rappresentazione che occupa il Giudizio riflettente…

Il sublime non andrà cercato nei prodotti dell’arte…dove uno scopo umano determina tanto la forma che la grandezza…ma nella natura grezza (ed in questa solo a condizione che non presenti attrattive né susciti il turbamento d’un pericolo reale), semplicemente in quanto è grande...

La natura è pertanto sublime in quei suoi fenomeni, la cui intuizione include l’idea della sua infinità. Questo non può avvenire se non per l’insufficienza anche dei massimi sforzi della nostra immaginazione nella valutazione della grandezza d’un oggetto… La vera sublimità va cercata solo nell’animo di chi giudica e non nell’oggetto naturale, il giudizio sul quale suscita tale stato d’animo…

Nella rappresentazione del sublime naturale l’animo si sente messo in movimento, mentre nel giudizio estetico sul bello naturale resta in calma contemplazione. Questo movimento si può (soprattutto all’inizio) paragonare ad uno scuotimento, cioè ad un rapido alternarsi di ripulse ed attrazioni per lo stesso oggetto. 

Sublime dinamico

La potenza è un potere superiore a grandi ostacoli…

Per poter giudicare la natura come dinamicamente sublime, dobbiamo rappresentarcela come paurosa…La natura pertanto, per il Giudizio estetico, non può passare come potenza, e quindi come dinamicamente sublime, se non in quanto è considerata oggetto di paura…

Ripide rocce strapiombanti e come gravide di minaccia, nuvole temporalesche ammassantisi e avanzanti in cielo con lampi e tuoni, vulcani al colmo della loro furia distruttrice, uragani che lasciano la devastazione dietro di sé, l’immenso oceano infuriato, la cascata d’un grande fiume, e simili, riducono ad una piccolezza insignificante il nostro potere di resistenza, paragonato con la loro potenza. Ma questi spettacoli, quanto più sono spaventosi, tanto più ci attraggono, se ci troviamo al sicuro; e queste cose le chiamiamo volentieri sublimi, perché innalzano le forze dell’anima al di sopra della mediocrità ordinaria, e ci fanno scoprire in noi stessi un potere di resistenza di tutt’altro genere, che ci dà l’animo di misurarci con l’apparente onnipotenza della natura.

… l’irresistibilità della potenza della natura ci rende, in quanto esseri naturali, coscienti della nostra debolezza fisica, ma ci rivela contemporaneamente una facoltà di considerarci indipendenti dalla natura, ed una superiorità nei suoi confronti, da cui deriva una specie di autoconservazione ben diversa da quella che può essere attaccata e messa in pericolo dalla natura esterna; perché in questo caso l’umanità della nostra persona rimane intatta, anche se l’uomo dovesse soccombere all’impero della natura… La natura viene qui dunque detta sublime soltanto perché eleva l’immaginazione a raffigurarsi quei casi nei quali l’animo può rendersi percepibile la speciale sublimità della propria destinazione, anche al di sopra della natura.

La sublimità non risiede dunque in nessuna cosa della natura, ma soltanto nel nostro animo, nella misura in cui possiamo giungere alla coscienza della nostra superiorità rispetto alla natura che è in noi, e quindi anche alla natura a noi esterna…”

(fine seconda parte)