Il Sor Carlo (così nomina se stesso) è stato uno dei più grandi poeti dialettali italiani; scriveva in dialetto milanese, perché ai suoi tempi lo parlavano tutti: all’inizio del XIX secolo era la lingua usata anche dai più grandi intellettuali milanesi, Alessandro Manzoni compreso.
Nonostante l’importanza della città di Milano nella storia d’Italia di quel tempo, la sua lingua non andò oltre i confini cittadini, né si propose come lingua nazionale: rimase lingua popolare, con la sua concretezza bonariamente dissacrante.
La grandezza di Carlo Porta è unanimemente riconosciuta, ma l’uso del dialetto[1], condannò la sua opera a una circolazione limitata, destinata a una sempre più ristretta cerchia di lettori nell’Italia prossima all’unificazione anche linguistica. La produzione letteraria di Carlo Porta si colloca all’inizio dell’Ottocento: la città si libera dalla dominazione francese e torna sotto quella austriaca.
In questa sede ci limiteremo a indagare su un aspetto particolare della poesia di Porta: la lingua latina nelle sue poesie. Buona lettura.
La lingua latina protagonista
La poesia On funeral (la “o” va pronunciata “u”, la “u” alla lombarda, cioè “ü”) si intitola anche El Miserere: già il doppio titolo suggerisce che il latino avrà un ruolo di particolare rilievo.
In questa poesia la commistione linguistica è molto marcata ed estremamente espressiva: con il dialetto del popolo, concreto, semplice e talvolta volgare si intreccia la lingua latina dal registro linguistico alto, formalmente nobile. Il pensiero dei sacerdoti che pregano in latino non è rivolto al cielo, ma si svolge con i piedi ben piantati sulla terra in diversa direzione, dando modo al poeta di evidenziare comicamente la bassa moralità di uno dei bersagli preferiti dal Porta: il clero.
Siamo nel 1816, gli Austriaci sono padroni di Milano, il poeta passeggia in centro e vede la chiesa di San Fedele addobbata “a rebesch e fioramm[1]” (v. 16) per il funerale di un gran personaggio “passaa ai quondamm[2]”. Al verso 18 compare la prima rima tra latino-milanese.
Il poeta è curioso di vedere come si svolge un funerale di persone altolocate, che immagina diverso da quello dei poveretti; entra in chiesa mentre stanno intonando la preghiera dei defunti, il Miserere. Il Sor Carlo conosce bene questa preghiera e pensa che forse potrebbe servirgli in futuro per scontare qualche peccato; si inginocchia dietro a due “pret vicciurinatt”[3] e li ascolta.
Dal verso 71 inizia un passo esilarante, in cui il testo latino del Miserere[4], con i suoi alti pensieri, si intreccia con i discorsi prosastici dei preti, che cantano solo con la bocca, mentre con la mente e le parole sono rivolti ad altro: il primo pensiero è per i piaceri della tavola, poi un dito scottato porta uno dei due preti sulla soglia della bestemmia; i preti tornano a parlare del cibo e del vino e infine, prendendo spunto dall’ingresso in chiesa di un soldato francese, dei privilegi perduti.
Ecco il testo dei versi 57 – 122; nella mia versione[5] il testo latino è in corsivo e le parole dei preti in rosso.
Gh'aveva de denanz duu strafusari Ecco chì come faven; Miserere mei Deus — E a disnà? E el scabbi[6] come l'è? Chì inscì per intermezz scora ona gotta E i olter canten, podend pù del rid, Domine... asperges me... Libera me de sanguinibus Deus, |
Avevo davanti due stralunati Ecco qui come facevano; Misericordia di me, o Dio – E a pranzo? E qui così, per intermezzo, cola una goccia E gli altri cantano, non potendone più dal riso, Signore… mi aspergerai… Liberami dal sangue, o Dio, |
Evidenziamo le rime più gustose e le allusioni più raffinate: il testo latino qui sopra è in corsivo e di colore rosso
- 79 … tibi soli peccavi | v. 80 … me la cavi [rima];
- prima del v. 90 in latino Ecce enim veritatem dilexisti uno dei preti si è scottato con una goccia di cera e arriva quasi alla bestemmia (“cisti” è un eufemismo); intorno a lui gli altri faticano a trattenere le risate: l’alta “verità” del sacro testo latino gioca con la comica realtà della piccola commedia;
- 96 … Monte Tabor | rima con dealbabor del v. 99 in un gioco semantico raffinatissimo: il monte Tabor del testo milanese è soltanto il nome di un’osteria, il verbo latino significa letteralmente “sarò purificato”, e richiama l’espressione milanese “andà al babbi”, cioè morire
- 105 che te possa vegnì la diarrea | et exultabit lingua mea v. 106, in rima baciata semiblasfema
- 115-122 è ricco di rime interne e finali: spua | tua; muri | giuri; Jerusalem | vedaremm; liberammen | amen.
La poesia va letta lentamente per gustare l'intreccio tra il testo sacro e le profanissime parole dei sacerdoti.
La poesia si conclude con l’augurio che il Signore dia retta al dolore di chi paga le spese piuttosto che a preghiere recitate in questo modo. Passiamo un’altra poesia in cui il latino ha un certo peso.
Una presenza minore ma non meno significativa
In Fraa Zenever Il latino non è più protagonista, ma ha la funzione di variare il registro linguistico, come il poeta a volte fa con la caricatura del francese o la lingua toscaneggiante della nobiltà.
La poesia è una satira anticlericale che prende spunto dalla nota ghiottoneria dei frati. La lingua della Chiesa deriva dalla formazione culturale di questi religiosi che poi sono stati attirati dai beni materiali. Frate Ginepro, un frate crapulone, cura l’anoressia del confratello Sisto con leccornie e buon vino. Con la sua eloquenza riesce a scroccare un maiale intero a un contadino vicino e organizza un bel banchetto per il convento.
Al v. 71 troviamo, in chiusura d’ottava una prima rima milanese-latino, prendendo spunto da https://carloporta.org/wp-content/uploads/2023/12/Atti-Porta_interni-49-65.pdf
E che el dis ciar e nett, ve zitti el test |
e che dice chiaro e tondo, vi cito il teso |
L’ingegnosa rima baciata bilingue dei due endecasillabi accosta la parola di un Santo[10] (San Bernardo) all’azione del frate crapulone che se ne serve per giustificare la propria gola.
Un altro santo (San Francesco) è chiamato in causa più avanti (v. 127), con una citazione latina. La rima è in latino.
ch’el sclamava dì e nocc: Integram horum |
che esclamava dì e notte “voglio avere |
Una rima baciata milanese-latino si trova ai vv. 143-144; niente santi ma concetto che si fa risalire ad Avicenna (980 – 1037)
savend che quel che pias nol fa descapit |
sapendo che quello che piace non fa male |
Una rima alternata milanese-latino si trova ai vv. 147-149: l’espressione fa parte delle locuzioni tradizionali religiose; ecco il testo:
de vorè on pè de porch a scottadeo! |
volere uno zampetto di maiale a scottadito! |
Un’altra rima baciata milanese-latino si trova ai vv. 231-232; con una formula che, nell’espressione completa (ad maiorem Dei gloriam) risale a Sant’Ignazio di Loyola e alla Compagnia di Gesù
chè infin m’en vanti, e che poss ben vantammen |
ché infine me ne vanto e posso ben vantarmene |
Concludendo: in questa poesia il latino non è protagonista: è una variazione di registro senza particolare importanza, ma conferma la vasta cultura dell’autore.
Altre parole latine
Alcune locuzioni latine compaiono in un’altra poesia che ha per protagonista un frate, Fraa Diodat.
Al v. 71 troviamo, in un contesto satirico, la formula di saluto Benedicite indirizzata al frate redivivo, che al v. 73 risponde con un’altra formula di saluto Pax vobis. Più avanti (v. 134 – 136) troviamo un verso intero, tratto da Salmi, 89, 4; soltanto poche parole latine, piccoli ornamenti privi di rilievo.
In gran contemplazion di coss eterna |
in grande contemplazione di cose eterne |
Con questa rassegna limitata alle opere più famose si può arrivare alla conclusione che Carlo Porta scrive in latino senza collegamenti costanti con la polemica anticlericale; in tante poesie a tema religioso non c’è una parola latina. Porta non è un classicista: per lui la lingua latina è solo uno dei registri linguistici con cui giocare con dosata sapienza.
[1] “Arabeschi e fiorame”, cioè decorazioni e fiori vari: il dialetto rende l’idea con la leggerezza con cui in genere parla di argomenti anche seri, apparentemente incurante dei dettagli.
[2] “passato ai quondamm”: l’avverbio latino, che si scrive con una sola “m”, significa “una volta”; il Porta allude ai defunti, “quelli che non ci sono più”.
[3] Letteralmente “preti vetturini”, appellativo dispregiativo che allude ai preti che si trovarono disoccupati dopo le leggi francesi che avevano causato molta disoccupazione nel clero, ridotto ad offrire i propri servigi nelle piazze, come i vetturini, come tassisti abusivi.
[4] Il testo della preghiera non è integralmente inserito nella poesia, ma è “tagliato” su misura, in modo da ottenere i più divertenti effetti comici. Ecco il link al testo integrale del salmo.
[5] Il testo integrale della poesia si può trovare nel sito dedicato al poeta https://carloporta.org/ oppure nel ricchissimo sito della Biblioteca Italiana a questo link; la traduzione del testo milanese in italiano si trova nelle numerose edizioni in commercio.
[6] Gergale per “vino”.
[7] Nomignolo riferito ai Francesi (cfr. sonetto Paracar che scappee de Lombardia).
[8] La parola latina quoniam (“poiché”) non ha senso in questo contesto, ma richiama per assonanza un gergale, e volgare, “coglioni”.
[9] Anche qui va sottintesa un’allusione alla liberazione dai Francesi e al ripristino dei privilegi tolti al clero.
[10] Il Porta trae ispirazione da racconti di ambito religioso e di dubbia credibilità.
[1] Anche i contenuti talvolta scabrosi delle poesie contribuirono a porre il Porta nella letteratura “minore”.