Quaere

Mimesis – μίμησις (imitazione) - è un termine fondamentale della teoria classica dell’arte, che ha attraversato i secoli giungendo fino a noi e subendo, nel lungo percorso, slittamenti di significato e diversità di valutazioni.

Nel pensiero di Platone troviamo una duplice condanna dell’arte come imitazione della realtà sensibile. Innanzitutto sotto il profilo conoscitivo l’artista – ad esempio il pittore che ritrae un qualsiasi aspetto del mondo -  non si avvicina, ma si allontana dalla conoscenza del vero, che è l’idea; se in un dipinto rappresenta – imita – un letto, di quell’oggetto non sa nulla, a differenza del falegname che produce il letto fisico avendo come modello il letto ideale; in altri termini, il buon falegname ha una conoscenza superiore a quella del pittore perché, sia pure nel limitato campo della sua techne τέχνη (arte), sa che cosa è un letto, quali caratteristiche e proporzioni deve avere per essere tale. (Repubblica, libro X)

Ma anche sotto il profilo morale e politico l’arte è degna di condanna, o perlomeno di un’accurata censura: Omero non può essere considerato il primo educatore della gioventù quando attribuisce agli dei e agli eroi azioni immorali; in generale viene condannata tutta la poesia che rappresenta e suscita passioni smodate e indegne di un buon cittadino. (Repubblica, libro II).

Ma in Platone - ad esempio nel dialogo Ione – troviamo anche una concezione dell’artista per certi versi antitetica a quella “mimetica”: l’artista è “abitato” da una potenza invisibile, da una sorta di divina follia, che lo fa esprimere con parole delle quali lui stesso non è pienamente padrone, in modi di cui non sa rendere ragione. Troviamo qui la più antica teoria dell’arte come ispirazione: qualcosa di divino, ma anche di irrazionale e misterioso. La teoria moderna del genio sviluppata in epoca romantica deve molto a questo tema platonico.

La più ampia teorizzazione dell’arte come mimesis, senza più condanne di tipo conoscitivo o morale, si trova nell’opera di Aristotele nota come Poetica. Per Aristotele l’epica, la tragedia, la commedia, la poesia lirica si definiscono tutte imitazioni, e si distinguono poi per la particolarità degli oggetti imitati e dei mezzi (parola, canto, musica, danza…) di cui si servono. Le arti poetiche nascono “naturalmente”: non solo l’imitare è qualcosa di connaturato agli esseri umani fin dall’infanzia, ma tutti traggono piacere dalle imitazioni, un piacere strettamente legato all’apprendere: ad esempio, l’immagine di cose spregevoli ci è più gradita della vista diretta di tali cose, e ci fa imparare “che cosa sia ogni cosa”.

Aristotele ci dà una famosa definizione della tragedia: “Tragedia è dunque imitazione (mimesis) di un’azione seria e compiuta in se stessa, con una certa estensione; in un linguaggio abbellito di varie specie di abbellimenti, ma ciascuno a suo luogo nelle parti diverse; in forma drammatica e non narrativa; la quale, per mezzo di pietà e paura, porta a compimento la depurazione κάθαρσις (katharsis) di siffatte emozioni”.

La tragedia è caratterizzata quindi dall’azione di personaggi seri – gli eroi del mito – che si conclude con un esito negativo; da musica, canto e danza in alcune sue parti; dalla forma drammatica, cioè dal fatto che i personaggi agiscono sulla scena; dall’estensione contenuta. La forma drammatica e la grandezza ben definita distinguono la tragedia dall’epica, che ha carattere narrativo ed estensione indeterminata. La catarsi (oggetto di infinite discussioni degli interpreti) dovrebbe poi spiegare perché si provi piacere nell’assistere ad aspri conflitti ad esito negativo.

I personaggi eroici e i contenuti seri distinguono invece la tragedia dalla commedia, che, in forma drammatica, è “imitazione di persone più volgari dell’ordinario; non però di qualsivoglia specie di bruttezza, bensì di quella sola specie che è il ridicolo, perché il ridicolo è una partizione speciale del brutto. Il ridicolo è qualche cosa di sbagliato o di deforme, senza però essere cagione di dolore e di danno”.

Il compito del poeta - epico, tragico o comico – non è la narrazione di cose avvenute, ma quali possono avvenire, cioè sono possibili secondo verosimiglianza. Questo carattere della poesia è valutato in modo particolarmente positivo da Aristotele: se la storia narra sempre il particolare (ciò che è accaduto a Pericle o ad Alcibiade) la poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale: ad un uomo di tale carattere accade di dire e fare cose di tale natura secondo le leggi della verosimiglianza.

Se ora, con un salto di circa tre secoli, prendiamo in considerazione l’Ars poetica del poeta latino Orazio, possiamo individuare un altro aspetto dell’imitazione: l’imitazione delle forme divenute ormai classiche nella letteratura, sorta di modelli inevitabili per chi voglia accingersi a poetare:

“In qual metro si debbano cantare le imprese di duci e sovrani o le guerre funeste, a mostrarlo fu Omero…le forme son definite; con le forme i toni e i linguaggi; come può, chi non le conosce, stoltezza o ignoranza che sia, salutarsi poeta?... non puoi in tragici versi esporre un comico tema; è da stolti voler narrare la cena di Tieste con un che di familiare, quasi fosse commedia”

Vediamo qui il presupposto di ogni neoclassicismo: esistono già forme, generi, modelli insuperati di ogni possibile opera letteraria; l’imitazione della realtà rimane sullo sfondo, filtrata attraverso l’imitazione dei classici.

Prof. Luciana Paracchini