Quaere

 

PATHOS (PASSIONE)  

Compiamo una piccola indagine intorno ad un termine significativo del lessico filosofico – il greco pathos e i suoi derivati – per cercare di capire come si sia passati da una connotazione prevalentemente negativa nel pensiero antico ad una connotazione prevalentemente positiva nella modernità.

Nel pensiero logico di Aristotele il pathos, o più esattamente il corrispondente verbo paschein (πάσχειν - patire) indica la categoria opposta e complementare al prattein, (πράττειν - l’agire); per chiarire meglio, il rapporto tra le due categorie è simile a quello che in grammatica vi è tra verbo attivo e il verbo passivo. Il “patire” indica l’essere oggetto di un’azione altrui, non il soggetto che agisce. Fin qui, nell’ambito della logica, non scorgiamo una connotazione negativa.

Il termine è però anche ampiamente usato nella riflessione psicologico-morale: qui pathos indica il subire un’influenza esterna, l’essere spinti da una forza che sfugge alla ragione, da un impulso cieco. Per estensione, pathos è anche sofferenza, dolore. Per gli Stoici in particolare la passione è la cattiva influenza della sensibilità sulla ragione, un moto irrazionale dell’anima; il giusto dominio della ragione dovrebbe portare il saggio al raggiungimento dell’apatia, che non è altro che l’impassibilità, il non essere preda delle passioni. La passione è una sorta di alterazione (anche nel senso di malattia) che coinvolge l’anima ed ha conseguenze anche sul corpo. Questa concezione finisce per dominare tutto il pensiero antico e medioevale.

Nella filosofia moderna una prima rivalutazione delle passioni si ha nel pensiero umanistico e rinascimentale, con l’esaltazione di tutte le facoltà dell’uomo; nel Settecento molte voci sostengono la funzione sociale delle passioni. Per citare solo un autore, l’olandese Bernard de Mandeville nella sua Favola delle api, ovvero vizi privati, pubblici benefici sostiene che, se tutte le passioni irrazionali cessassero, verrebbe meno anche la prosperità della (nascente) società industriale che si basa sul desiderio del lusso, la competizione e la ricerca di sempre maggiori profitti.

Forse però l’esaltazione delle passioni che ci è più familiare è quella proposta dal Romanticismo, che non si basa su motivazioni edonistico-economiche, ma piuttosto sulla critica dei limiti della ragione tradizionalmente intesa, ragione che non sa comprendere la totalità vivente delle forze che agiscono nella storia e si manifestano nell’uomo come passioni. Essere animati da una grande passione non significa più dunque essere affetti e limitati da una condizione patologica, ma al contrario avere uno scopo verso il quale mobilitare tutte le proprie forze, agire in modo creativo, incidere sulla realtà, dare prova di grandezza d’animo anche contro un destino avverso.

Luciana Paracchini