Prendendo spunto da un interessante post della pagina Facebook Scripta legamus (che consiglio vivamente) che invitava alla rilettura di un’epigrafe pavese con il testo di un’elegia petrarchesca, vorrei dedicare un approfondimento sull’argomento, unito a qualche considerazione personale.
L’epigrafe si trova esposta nel Castello Visconteo di Pavia, appesa a una parete, nel contesto dei Musei Civici. Originariamente si trovava nell’antica chiesa di San Zeno[1], risalente al XII secolo, sconsacrata nel 1789 e parzialmente demolita dal proprietario, il marchese Luigi Malaspina di Sannazaro.
Nella parrocchia di San Zeno abitarono la figlia di Petrarca, Francesca, il genero Francescuolo (Francescolo) di Amicolo da Brossano, la nipotina Eletta (n. 1362) e, meno stabilmente, anche il poeta. Per breve tempo, due anni e quattro mesi, visse il figlio della coppia, il nipotino del poeta nato nel 1366, chiamato Francesco come il nonno.
Quando il piccolo morì, nel 1368, fu sepolto nella chiesa e a lui il nonno dedicò una breve elegia in latino (sei distici), che fu scolpita sulla lastra tombale in caratteri dorati maiuscoli (quadrati) particolarmente curati, nei quali si intravedono dei segni di interpunzione. Ne esisterebbe una seconda copia in Treviso[2], nei chiostri inferiori del duomo, trasportata dalla chiesa dei PP Conventuali di San Francesco. A Treviso si era trasferita la famiglia Brossano e probabilmente Francescuolo aveva fatto fare una copia dell’originale pavese, da collocare presso la tomba della madre Francesca[3], con la data della di lei morte MCCCLXXXII, II Augusti[4].
Petrarca stesso parla dell’iscrizione pavese nella lettera quarta del decimo libro delle Seniles (§ 33) “bustum ego marmoreum illi infantulo apud Ticini urbem bis sex elegis inscriptum literisque aureis exaratum statui” “per quel piccolino a Pavia ho fatto erigere un sepolcro di marmo con un’iscrizione a caratteri d’oro di sei distici elegiaci”.
Ecco la trascrizione del testo, con una traduzione
VIX MUNDI NOVVS HOSPES ITER VITEQ(VE) VOLANTIS
ATTIGERAM TENERO LIMINA DVRA PEDE.
FRANCISCVS GENITOR, GENITRIX FRANCISCA, SECVTVS
HOS DE FONTE SACRO NOMEN IDEM TENVI.
INFANS FORMOSVS, SOLAMEN DVLCE PARENTVM
NVNC DOLOR, HOC VNO SORS MEA LETA MINVS.
CETERA SVM FELIX, ET VERE GAVDIA VITE
NACTVS ET ETERNE, TAM CITO, TAM FACILE.
SOL BIS LVNA QVATER FLEXVM PERAGRAVERAT ORBEM,
OBVIA MORS, FALLOR, OBVIA VITA RVIT.
ME VENETVM TERRIS DEDIT VRBS RAPVITQ(VE) PAPIA
NEC QVEROR, HINC CELO RESTITVENDVS ERAM.
ANNO MCCCLXVIII, XIIII KAL. IVNIAS HORA NONA
Nuovissimo ospite del mondo, avevo sfiorato col mio piedino il viaggio e la dura soglia della vita che vola.
Francesco padre, madre Francesca, seguendoli mantenni al battesimo lo stesso nome.
Bimbo bello, dolce conforto dei genitori, ora dolore: solo per questo la mia sorte è meno lieta.
Ma sono fortunato per il resto e della vera vita eterna ho raggiunto la gioia, così in fretta e facilmente.
il sole due volte la luna quattro avevano percorso la loro orbita, la morte, no, la vita mi è corsa incontro.
La città dei Veneti mi diede alla terra e Pavia mi rapì e non mi lamento, di qui dovevo essere reso al cielo.
Anno 1368°, calende di giugno, ora nona.
Eccone un’elegante versione italiana di Giuseppe Adorni in forma di sonetto
Appena messo il piede tenerello
ebbi per entro al cammino aspro e greve
di questa vita sì fuggiasca e breve,
fatto del mondo cittadin novello.
Fanciul vezzoso era io, soave e bello
dei genitor conforto, or duol non lieve;
per ciò solo men lieto. Alfin riceve
me de' beati il sempiterno ostello.
Due volte al bosco rinnovar le chiome
vidi, e quattro scemarsi in ciel la Luna:
Francesco ebb'io, quel de' miei padri, nome.
La Veneta città diemmi la cuna,
Pavia la tomba; ma lo spirito oh come
fruisce in cielo un’immortal fortuna!
Il testo petrarchesco presenta tutti i caratteri tipici di un epitimbio classico, con il nome dei genitori, la nascita, l’amore di cui era oggetto quando era in vita, l’età della morte e il dolore provato da chi lo ebbe caro. Il piccolo Francesco, che parla in prima persona, coerentemente con la propria fede si considera felix (fortunato) perché ha raggiunto la vera vita; non si lamenta (nec queror) perché sapeva di dover essere restituito al cielo (restituendus eram).
I distici petrarcheschi, tutti a struttura chiusa (il secondo verso termina con un punto fermo), nella disposizione delle parole presentano tutte le caratteristiche retoriche della poesia latina, a partire dagli iperbati (semplici, doppi e incrociati[5]); sono presenti anche le altre figure retoriche classiche: l’allitterazione (al v. 1 la “v”), il chiasmo (al v. 3), il poliptoto, l’antitesi, l’anafora e la disposizione a cornice[6].
Poche le parole riconducibili ad un “normale” affetto terreno: il piede tenero (tenero… pede), una bellezza generica (formosus), un cenno alla consolazione (solamen) dei genitori e un fugace cenno alla morte più improvvisa che violenta (rapuit).
Nella citata lettera Sen. X, IV dedicata al grammatico Donato Albanzani, scritta come consolatoria per la prematura morte del figlio Solone, il poeta parla del proprio legame con il nipote in termini ben diversi.
Eccone alcuni esempi:
- 17 “… iuro plus me illum amasse quam filium” (giuro di averlo amato più di un figlio);
- 20 “… solacium vite ingens ac iucunditas… quartus Franciscus“ (il quarto Francesco, grande gioia e consolazione della vita).
Del piccolo Francesco elogia poi l’ingegno, la bellezza, la prodigiosa somiglianza che lo faceva sembrare figlio suo, ricorda le aspettative che aveva suscitato e il pianto di chi si addolorò per la sua morte, e la commozione provata.
Al § 36 lo chiama “infans meus” (il mio bambino) dice che è stato strappato “ab amplexu meo” (dalle mie braccia) e nel paragrafo successivo si esprime così: “Sic illius amor parvuli totum meum pectus impleverat ut an umquam tantum aliquid amaverim haud facile dictu sit” (L’amore per quel piccolino aveva riempito tutto il mio cuore al punto che non è facile dire se mai io abbia tanto amato qualcosa).
Nella lettera gli argomenti della ragione dettati dalla fede ci sono, ritornano alcune parole dell’epigrafe, come la “gioia della vera vita” (§ 133 e v. 7), ma si avverte maggiormente l’affettuoso ricordo del nipotino.
Petrarca negli ultimi anni della vita si è sempre più allontanato dalle passioni umane, il suo pensiero è rivolto alla vera vita, quella che lo attende nell’aldilà. L’epistola gli permette di concedere più spazio all’affetto terreno per quel piccolino morto così presto: parole d’amore che un nonno dedica a un nipotino. Su quel marmo questi sentimenti sono come nascosti; il poeta si è messo in disparte, prestando al piccolo defunto parole ragionevoli, raffinate nella loro eleganza letteraria. Quella voce viene da un altro mondo, è una voce celestiale colma di saggi pensieri, una fantasia che si può cogliere superando l’apparenza di quella forma impeccabile; solo così risulterà meno fredda del marmo su cui furono quelle parole furono scolpite.
Sempre utile un riferimento alla biografia di Wilkins, capitolo 29.
Una risorsa eccezionale ad accesso aperto disponibile in rete per ora disponibile: https://ricerca.unich.it/retrieve/e4233f14-f8ff-2860-e053-6605fe0a460a/2014.Senili%20IX-XII.pdf
[1] La scheda SIRBeC si trova a questo indirizzo.
[2] Ho trovato questa notizia nel libro Poesie minori del Petrarca sul testo latino ora corretto, vol. III, Appendice prima, volgarizzamento del prof. Giuseppe Adorni, Società Tipografica de’ classici italiani, 1834. L’autore riporta anche l’esistenza di tre varianti: eram al posto di iter (v.1) hinc invece di nunc (v. 6) e hic al posto di hinc (v.12). La prima variante è inspiegabile, la seconda e la terza sono errate: nell’insieme fanno pensare a una copia meno curata nell’aspetto (in caratteri romani) e priva della data della morte del piccolo.
[3] Francesca morì di parto a Treviso nell'agosto del 1384, la sua tomba si trova a Treviso nella chiesa di San Francesco, dove si trova anche la tomba di Pietro Alighieri, figlio di Dante.
[4] Poesie minori…
[5] V. 2 tenero limina duro pede, v. 6 vere gaudia vite [verae…vitae]
[6] V. 11 Venetum…urbs…Papia.