Quaere

Passeggiando in via De Amicis a Milano, passa quasi sempre inosservato che al civico 17 si trovino i resti dell’Anfiteatro romano di Mediolanum con annesso l’Antiquarium “Alda Levi”.
Nella seconda sala dell’Antiquarium è esposta la stele funeraria del gladiatore Urbicus, rinvenuta a Milano tra via Francesco Sforza e corso di Porta Romana. Sono poche le stele funerarie di gladiatori rinvenute finora e quindi la stele di Urbicus è un reperto di assoluto rilievo. La stele è datata al III secolo d.C. e, oltre alla raffigurazione del gladiatore secutor con la sua arma da combattimento, la sua armatura e con il suo cagnolino che gli porge l’ultimo saluto, riporta un’iscrizione molto dettagliata, che recita:

D(is) M(anibus)
Urbico secutori
primo palo nation(e) Flo
rentin(o) qui pugnavit XIII (ter decies)
vixit ann(os) XXII (duos et viginti) Olympias
filia quem reliquit mesi V (quinque)
et Fortunesis filia(e)
et Lauricia uxor
marito bene merent(i)
cum quo vixsit ann(os) VII (septem)
Te moneo ut quis quem vic(e)
rit occidat
Colent Manes amatores ipsi
us

Agli Dei Mani
A Urbico, inseguitore di prima posizione, Fiorentino di origine, che combatté tredici volte, visse ventidue anni; Olimpia (sua) figlia che lasciò di cinque mesi e la figlia Fortune(n)se e la moglie Lauricia dedicano al marito che ha ben meritato, con cui visse sette anni. Ti avverto, chiunque tu sia che uccidi chi hai vinto. I suoi tifosi terranno viva la sua memoria.

Il fatto che sia citato con un solo nome, Urbicus, significa che fosse uno schiavo, figlio di una coppia di schiavi fiorentini. Era un secutor, cioè un inseguitore, e il suo tradizionale avversario era il retiarius. Per effetto delle sue numerose vittorie raggiunge il rango di primus palus, ossia di prima posizione. Di questa definizione non abbiamo notizie documentali precise per sapere il suo reale significato. Possiamo supporre rappresentasse una sorta di grado in una ipotetica classifica, forse il primo dei gladiatori a entrare nell’arena.

Il suo equipaggiamento consisteva in un elmo (galea), di forma ovoidale e perfettamente liscia per non offrire appigli di presa alla rete e al tridente del reziario. Come unica arma aveva una spada corta e diritta (gladius), adatta a un utilizzo rapido ed efficace. La sua armatura consisteva in un corto schiniere (ocrea) che proteggeva la gamba sinistra, la più esposta nella postura di combattimento, e da una fasciatura del braccio destro che lo proteggeva dalla spalla alla mano che impugnava il gladio. Completava la sua difesa un grande scudo (scutum) rettangolare, spesso a forma semicircolare, per proteggersi dai colpi del tridente dell’avversario e un paracolpi di cuoio o di metallo a protezione della gola. E proprio nel bassorilievo, che vediamo nella parte superiore della stele, viene rappresentato Urbicus con tutto il suo equipaggiamento.

La stele è un dono della moglie Lauricia, al marito che ha ben meritato e con cui ha convissuto per sette anni, e delle figlie: Olimpia, della quale non viene riportata l’età, e Fortunense, di appena cinque mesi, che mai potrà conoscere il padre.
La famigliola è rappresentata nel bassorilievo della parte superiore della stele dal cagnolino di casa, che porge la zampina al suo padrone per l’estremo saluto. Non abbiamo fonti documentali che attestino la presenza di cani in combattimento a fianco del secutor e quindi la sua presenza può solo simboleggiare la partecipazione affettuosa della moglie e delle figlie alla morte del loro caro. Un tocco di dolcezza, fedeltà e amore.

Urbicus muore giovanissimo, ad appena ventidue anni, dopo aver combattuto ben tredici volte. L’ultima frase dell’epigrafe ammonisce chi lo ha vinto e ucciso, perché Urbicus non morirà, in quanto i suoi tifosi (amatores) manterranno vivo il suo ricordo. Quindi da questa frase si deduce che questo gladiatore era molto famoso e seguìto, visto che doveva avere un nutrito numero di appassionati tifosi. Ma, tra le righe, lascia intendere che forse c’è un giallo nella morte di Urbicus, cioè che potrebbe essere stato ucciso a tradimento e che quindi la frase sarebbe da interpretare come “Ti ammonisco, chiunque tu sia che hai ucciso chi aveva vinto…”.

Un’ultima annotazione curiosa: nell’epigrafe compare due volte il verbo vixit ma la seconda volta viene aggiunta una “s” e diventa vixsit. Si tratta di un errore di scrittura dello scriba o di un volontario rafforzativo per dare più risalto al concetto espresso?

Eugenio Bacchion

(GAM Gruppo Archeologico Milanese)